Selfie

atlante –  comunicazione

Il selfie è una foto digitale in cui è inquadrato anche colui che la scatta, e che in genere viene fatta per essere condivisa sui social network.
La pratica è esplosa insieme con la diffusione dell’I-phone prima, e di tutti gli altri smartphone poi, grazie alla doppia fotocamera sulle due facce dell’apparecchio, alla tecnologia del touch screen che rende immediato il comando per fare la foto, e al display che serve sia per inquadrare il soggetto che per vedere la foto fatta, in modo che inquadratura e foto siano praticamente uguali.
La tecnologia è usata su telefoni e tavolette, ma anche con le webcam inserite nei monitor di computer portatili e desktop.

Più che un autoritratto, il selfie è una documentazione visiva di se stessi, perché con l’obiettivo grandangolare montato di default nel dispositivo mobile, e con i bastoni telescopici che permettono di allontanare l’apparecchio pur continuando a tenerlo puntato su di sé, oltre alla propria faccia si possono includere altre persone, o un’intera tavolata di amici, o un monumento o una veduta.
Il selfie è molto usato per fotografarsi accanto a persone famose o a luoghi memorabili per autocelebrarsi e dire alla propria cerchia: vedi dov’ero e con chi ero? In tal senso il selfie non ha nessuna ambizione qualitativa, ma solo di documentazione effimera. La rappresentazione di sé che fin dai tempi antichi ha generato autoritratti e autobiografie che in molti casi hanno raggiunto il livello del capolavoro, non ha nulla a che fare con il selfie, perché l’autoritratto ha lo scopo di metterci al di fuori del tempo, il selfie invece ci colloca proprio in quel momento, e poi magari si butta.
Di per sé il selfie non è né buono né cattivo, è solo un servizio in più di un apparecchio tutto fare che mi permette di fotografarmi da solo, ed è lo stesso sistema che mi fa dialogare in videochat con amici e colleghi, dato che la stessa webcam fa da fotocamera e telecamera.
Se però viviamo in funzione del selfie che ci faremo, e dei like che avremo sul nostro post, ci troviamo di fronte alla reificazione del selfie, che da mezzo diventa fine. E il mito di Narciso ci ricorda che a furia di contemplarsi nel riflesso dello stagno, ci si può cadere dentro e affogare.
Osservando nel suo insieme il fenomeno del selfie, ci chiediamo se è più determinante la tecnologia video e fotografica, o la condivisione sui social. Se focalizziamo sulla ripresa, notiamo una banalizzazione della foto e del video. Poiché abbiamo il telefono sempre a portata di mano, e scattare una o venti foto non ci costa nulla, siamo portati a fotografare qualsiasi cosa, anche il posto del parcheggio in cui abbiamo lasciato la macchina. Quindi alla foto da ricordare e da conservare si aggiunge lo scatto come appunto visivo da gettare dopo l’uso. Il selfie a volte svolge ancora la funzione di conservazione di un momento memorabile, altre volte è solo un appunto per gli amici.
Se invece focalizziamo sulla pubblicazione o condivisione di foto e video sui social, il selfie serve a mostrarci in una situazione piacevole, invidiabile, capace di suscitare reazioni negli amici e contatti che ci seguono. Se però questo diventa lo scopo della condivisione, si arriva al punto di riprendersi in situazioni rischiose, improbabili, “mostruose”, solo per attirare le faccine sul post. Emblematico è il caso di un passeggero che durante un dirottamento aereo si è fatto un selfie con il dirottatore.
L’autocelebrazione è accentuata dalla disponibilità di applicazioni che elaborano l’immagine con filtri e viraggi di colore, in modo da confezionarla a imitazione delle immagini degli annunci pubblicitari o delle riviste. Ecco quindi che il virtuale e il manipolato prende vantaggio sul reale e sul genuino, accentuando la distanza fra il nostro io intimo e la nostra immagine pubblica.