1946-1956: La seconda decade, ricostruzione e impronte culturali

Sommario

    • Il rientro e la ferita della casa (1946-1949)  – La faticosa ripresa di papà: “Mio padre zappa la terra, però fa anche l’avvocato”.  – Ritorno a Lanciano: la casa sventrata, luogo di misteri e fantasie. – Il saccheggio: i vestiti fatti con le tende del salotto. – La rottura brusca: la distruzione della stanza dei giochi e la fine dell’infanzia.

    • L’investitura artistica e i maestri di Lanciano – Amore a prima vista: l’incontro con Gino il pittore e le impalcature. – Il berrettino di giornale: l’iniziazione come decoratore a otto anni. – Il trucco della piuma: fare le venature del finto marmo. – Dagli antichi mestieri alle nuove tecnologie: il seme della multimedialità.

    • L’irruzione della cultura americana e del Jazz – Il dopoguerra: il mito americano, il pane bianco, i V-Disc e le Am-lire. – Jazz a Lanciano: Vincenzino Biondi e Lino Pancella, tra Errol Garner e Bud Powell. – La rudimentale band di casa: trombetta, saggina e barattolo con il grano.  – Dare importanza alle cose importanti: papà compra la tromba a Cicci, futuro solista RAI. – La rivelazione di Woody Herman: il disco a 33 giri ascoltato col figlio del fornaio. – Il discernimento: l’incontro con “Mister Branels” e la differenza tra jazz e musica commerciale.

    • Il ritorno a Roma e la crescita intellettuale (1952-1956) – Il trasferimento a 16 anni: dal “più bravo della classe” all’impegno per raggiungere i più bravi. – La completezza: prepararsi bene non solo nello studio ma anche nello sport e nella società.– Musica di prima grandezza: i concerti del Jazz at the Philarmonic (JATP) con Ella Fitzgerald e Oscar Peterson. – L’arte che folgora: la mostra antologica di Picasso e l’impatto con l’arte materica di Burri. – I nuovi media: la prima volta con la TV (la Mille Miglia) e l’uscita de L’Espresso.

    • I maestri del pensiero e l’avvio al pensiero critico – Il dialogo fondamentale: papà che mi parla di Kant nel boschetto di Navelli. – La lezione del feeling: il prof. Cattivera e l’importanza di integrare passione e intelletto (lo “swing” del jazz). – Il sostegno alla crescita: la signorina Feliziani che spinge per il ritorno a Roma e la visita finale. – Le prime esperienze di costruttivismo e relativismo: il dimagrimento con il Metrecal. – La fotografia come arte: l’impatto con la mostra “The Family of Man”, seme della futura professione.

Il rientro e la ferita della casa (1946-1949)

La faticosa ripresa di papà: "Mio padre zappa la terra, però fa anche l’avvocato". 

I miei genitori vivono ancora in campagna, e ci resteranno fino a quando mio padre deciderà di tornare a Roma per riaprire il suo studio di avvocato. Fu memorabile un mio tema sui genitori, in cui scrissi “Mio padre zappa la terra, però fa anche l’avvocato”. La maestra corresse la mia espressione, che invece descriveva con esattezza la faticosa ripresa postbellica di papà, che scriveva, studiava e lavorava nel bosco in attesa di poter riprendere la professione.
Fin da bambino leggevo molto, e già dalle elementari il mio forte era il disegno e l’italiano scritto. Armida Cauli, la mia maestra dalla terza alla quinta elementare, ci assegnava come compito a casa ogni giorno un diario, che risultò un ottimo allenamento per osservare e raccontare ciò che stavamo vivendo.

Ritorno a Lanciano: la casa sventrata, luogo di misteri e fantasie.

Noi bambini invece torniamo con i nonni a Lanciano, per riprendere la nostra vita normale e andare a scuola. Appena arrivati, vediamo con i nostri occhi ciò che vide il nonno, e gli diamo pienamente ragione. La casa è completamente sventrata. I soffitti pendono a brandelli, non ci sono più mobili e arredi. Il capannone delle macchine è stato colpito da una bomba, e una grande macchina è sprofondata nel seminterrato.

Altre bombe aeree hanno distrutto il locale delle caldaie e hanno sventrato la grande caldaia che alimentava tutta la tintoria.

La casa del custode non esiste più. Ci dicono che gli alleati l’hanno demolita perché avevano bisogno di materiali per riempire buche.

I nonni rimettono su in fretta una parte della casa, lasciando chiuso tutto il resto. Mi è sempre rimasta in mente la parte in rovina, proibita a noi bambini perché pericolante, e perciò luogo di misteri, di memorie, di fantasie. Ancora oggi sogno di abitare lì, e di non poter andare nei salotti buoni perché sono chiusi e pericolanti. Quell’aria di rovina, tipica di certi sogni inquietanti, per me è l’esatto ricordo di allora.

Il **Convitto Nazinale** di Roma, in cui ho frequentato il liceo classico
Il Convitto Nazionale, dove ho frequentato il liceo classico dal 1952 al 1955.
Il saccheggio: i vestiti fatti con le tende del salotto.

Parenti e amici ci dissero che i cittadini stessi hanno saccheggiato la casa abbandonata, e per qualche anno vedemmo donne che andavano in giro con vestiti fatti con le tende del nostro salotto. A me bambino sembrava un sopruso, ma da adulto compresi il sentimento di eccitata rivalsa che dovettero provare quelle persone entrando nella casa dei “signori”, tutta a loro disposizione, Mobili e soprammobili di valore, quadri, vasellame, argenterie, erano stati murati e li recuperammo qualche anno dopo.

La brusca fine dell'infanzia, la stanza dei giochi distrutta. Il primo morto.

Anche la mia stanza con tutti i giochi è distrutta, e ciò segna una frattura brusca fra il tempo in cui ero bambino e quello in cui sono diventato un ragazzo. Ho solo barlumi di ricordi della casa di prima della guerra: qualche mobile, un grande salone, lo scaffale dei libri, il cassetto con i giochi che i nonni chiudevano “per non farmeli rompere”.
Questa faccenda dei giochi ai giorni nostri sarebbe un’assurdità, ma per me fu uno stimolo alla creatività perché, privato dei giocattoli più o meno costosi, fui spinto a inventare giochi miei con legnetti, fiori, foglie, semini dei mandarini con cui mi raccontavo storie inventate di eroi omerici che si disputavano un pezzetto del tavolo della prima colazione, cavalieri di cappa e spada che sterminavano campi di erbacce infedeli, esploratori e navigatori che affrontavano impavidi le avventure della grande vasca coi pesci rossi e delle piante del giardino.

Nel 1949 morì zio Giovanni, e fu il primo morto di cui feci esperienza. Fu anche la prima volta in cui constatai che tutte le nostre preghiere per tenerlo in vita non avevano avuto nessun effetto. Aveva 77 anni, e per me fu una perdita dolorosa.  Per anni non siamo riusciti a sopportare il profumo dell’acqua di colonia Atkinson’s con cui era stato lavato il cadavere.

L'investitura artistica e i maestri di Lanciano

Amore a prima vista: l'incontro con Gino il pittore e le impalcature.

Un bel giorno, dopo un anno di vita arrangiata alla meglio nell’ala destra della casa, vidi riempirsi di impalcature alcuni di quei locali fortemente danneggiati che tenevamo chiusi, perché il nonno aveva deciso che era giunto il tempo di fare i lavori di restauro. Arrivò Gino, il pittore, con i suoi lavoranti, e cominciò a togliere i pezzi di intonaco a cannucce che pendevano dalle ferite del soffitto, a rasare i muri, a dipingere le pareti. Fu amore a prima vista. Passavo lunghe ore su quelle impalcature.

Il berrettino di giornale: l'iniziazione come decoratore a otto anni.

Col berrettino di giornale che Gino mi aveva fatto come investitura con cui potevo considerarmi uno di loro, guardavo affascinato la preparazione delle tinte, le pennellesse, le carte vetrate, le polveri e le colle, e qua e là ricevevo il mio pennello e la parte di parete da tinteggiare. Gino mi spiegò che fra i pittori c’era l’imbianchino, che faceva i normali lavori di tinteggiatura, il decoratore che faceva modanature, finti marmi, cornici, il “paesaggiaro” che faceva fiori, piante e vedute, il figurista che infine era capace di dipingere la figura umana. Con grande rispetto mi diceva che il mio bisnonno era un figurista di valore.

Il trucco della piuma: fare le venature del finto marmo.

Quando arrivò al momento di riprendere i finti marmi che decoravano la galleria, un lungo salone in cui si passeggiava quando era cattivo tempo e si chiamava così perché era tappezzata di quadri, mi spiegò come si faceva e me ne fece fare qualcuno, con mia grande soddisfazione di decoratore di otto anni. Il trucco era usare una piuma di gallina per fare le venature, e una pennellessa per sfumarle.

Dagli antichi mestieri alle nuove tecnologie: il seme della multimedialità.

Questo fu il mio incontro con la pittura, un amore che rimase per tutta la vita e che ha orientato i miei studi e le mie scelte professionali, anche se poi ho finito col sostituire agli antichi mestieri le nuove tecnologie dei superproiettori, della multimedialità virtuale, dell’arte digitale, fino agli assistenti di intelligenza artificiale.

I bambini si divertono molto quando si fanno fare loro cose da grandi. Questo li aiuta a crescere e a diventare responsabili delle loro azioni, perché non sono fatte per gioco, ma “per davvero”. E così anche io crescevo imparando, a scuola e a casa.

L'irruzione della cultura americana e del jazz

Il dopoguerra: il mito americano, il pane bianco, i V-Disc e le am-lire.

Lanciano non era in condizioni migliori rispetto alla nostra casa. Alcuni palazzi erano stati colpiti dalle bombe aeree ed erano sventrati o crollati. I portici del corso erano stati completamente bruciati dai tedeschi, come rappresaglia dell’azione partigiana del 6 ottobre 1943, una delle prime in Italia. Dovunque ci si girava erano evidenti le rovine di un regime che ormai non mostrava più nulla della roboante retorica con cui aveva affascinato gli italiani. Il dopoguerra è stato caratterizzato dalla formazione del mito americano, portatoci dalle truppe, con il loro pane bianco, le cioccolate, il chewing gum, la musica dei V-disc, edizioni speciali di dischi per militari, con la musica di tutte le grandi star americane, da Frank Sinatra a Benny Goodman, da Bing Crosby a Louis Armstrong. C’erano le am-lire, nuove monete che avevano sostituito le svalutate lire italiane. Le ronde degli MP avevano sostuito le pattuglie delle SS.

Jazz a Lanciano: Vincenzino Biondi e Lino Pancella, tra Errol Garner e Bud Powell .

Vincenzino Biondi e Lino Pancella, due straordinari giovani pianisti, venivano nelle nostre case e al Circolo cittadino, e sui pianoforti abituati alle romanze di Tosti suonavano jazz, l’uno nello stile di Errol Garner, l’altro già echeggiando le modernità di Bud Powell, che forse aveva colto da Voice of America, la trasmissione che si poteva ascoltare prima da radio clandestine e dopo alla radio ufficiale, oltre che nei V-disc. Vincenzino suonava ad orecchio e come molti jazzisti della prima ora non conosceva una nota di musica, Lino aveva ricevuto studi classici dai genitori entrambi maestri di musica, e suonava sia musica classica sia jazz. Ambedue si esibivano pure da soli o con piccoli gruppi per far ballare, ma il loro gusto non li portava mai a suonare canzoni scadenti, e sapevano imprimere anche ai ballabili più melensi la loro verve di veri jazzisti.

La rudimentale band di casa: trombetta, saggina e barattolo con il grano.

Mio fratello Cicci aveva comprato una trombetta in una bancarella e l’aveva modificata, e con essa suonava qualsiasi motivo in voga. Mio cugino Vittorio mi aveva insegnato a mettere le mani sul pianoforte. Con Cicci avevamo trovato un nuovo gioco. Lui aveva sfilato un po’ di saggina da una scopa, aveva messo un po’ di grano in un barattolo e con un tamburello per giocare a palla faceva una rudimentale batteria, che suonava mentre eseguiva la melodia con la trombetta. Io facevo gli accordi sul pianoforte di casa, un vecchio strumento napoletano un po’ scordato e con una tastiera durissima, e andavamo avanti così per ore.

Dare importanza alle cose importanti: papà compra la tromba a Cicci, futuro solista RAI.

Cicci non andava molto bene a scuola. Mi ricordo che una volta andammo a vedere “Chimere”, il film che Michel Curtiz fece nel 1950 narrando la biografia romanzata del trombettista dixieland Bix Beiderbecke, con Kirk Douglas, Laureen Bacall e Doris Day. Dopo il film, io chiesi a mio fratello che cosa gli sarebbe piaciuto veramente fare nella vita. Mi disse che gli sarebbe piaciuto suonare la tromba come il protagonista del film (i cui assoli di tromba per la cronaca erano eseguiti da Harry James). Quando tornai a Roma, dissi a papà del sogno di Cicci, sapendo che per il suo stesso talento musicale era l’unico che mi avrebbe capito. Papà dimostrò per la prima volta una dote preziosa: dare importanza alle cose veramente importanti. Comprò subito una tromba e cercò il maestro, così che dopo pochi mesi Cicci cominciava a studiare, all’età di tredici anni, con il maestro Augusto Centofanti, che aveva diretto la famosa banda di Lanciano, e che gli diede basi musicali molto solide.

Io ero tornato a Roma dai genitori, mentre Cicci era rimasto con i nonni. Ricordo che in ogni lettera mi scriveva che aveva imparato a suonare una nota in più. Ne imparò tante da diventare il solista di celebri colonne sonore di Ennio Morricone, prima tromba dell’orchestra della RAI e jazzista di prima grandezza.

La rivelazione di Woody Herman: il disco a 33 giri ascoltato col figlio del fornaio.

Accanto alla camera da letto dei nonni, c’era il “salottino della radio”, dove campeggiava una grande radio di radica con cui si ascoltava il bollettino, come si chiamava allora il giornale radio, e le arie d’opera. Subito dopo la guerra, poiché la radio anteguerra era andata distrutta, il nonno l’aveva rimpiazzata con un radiogrammofono Phonola, che oltre alla radio a valvole aveva un giradischi a 78 e 33 giri (il 45 giri non esisteva ancora). Noi avevamo qualche disco a 78 giri, e c’era solo il mio amico Augusto, il figlio del fornaio di Lanciano, che aveva ricevuto un disco a 33 giri da parenti americani. Io avevo il giradischi, lui il disco, quindi ogni tanto ci mettevamo d’accordo e lui veniva a trovarmi con “il disco”, che sentivamo per tutto il pomeriggio. Era il Second Herd di Woody Herman, altrimenti detto The four brothers herd, dove i quattro fratelli erano i famosi sassofonisti Zoot Sims, Stan Getz, Herbie Steward e Serge Chaloff. Anche quello fu un forte imprinting jazzistico, insieme con “il Discobolo”, una trasmissione radio di Biamonte e Micocci che contribuì in modo decisivo a costruire i nostri gusti musicali.

Il discernimento: l'incontro con "Mister Branels" e la differenza tra jazz e musica commerciale.

Anche qualche anno dopo i dischi erano merce rara e costosa. Ogni tanto ci si riuniva per ascoltarli, mettendo insieme i quattro dischi, ancora a 78 giri, che ognuno di noi aveva. A volte nelle feste della “Casa di conversazione” (il club dove i lancianesi di estrazione sociale medio-alta si riunivano per giocare a carte, al biliardo e per fare salotto) veniva a suonare un gruppo di musicisti di Pescara. Del gruppo facevano parte il chitarrista Pasquale Dottori, un giovane biondo ed azzimato che suonava nello stile di Les Paul, e il cantante Angelo Branella, un giovane magro e raffinato con una ottima pronuncia inglese, che cantava sottovoce nello stile dei famosi crooner americani, tanto che tutti lo chiamavano “Mister Branels”, con quei vezzi esterofili che hanno sempre caratterizzato gli italiani. Per me e mio fratello erano incontri importanti, e loro ci fecero comprendere per primi la differenza fra dischi di jazz autentico e di musica commerciale, che nominavano con lieve disgusto. Fu Angelo a rivelarmi il virtuosismo di Ella Fitzgerald in “Mr. Paganini”. Erano le prime basi della mia futura attività di critico jazz.

Il ritorno a Roma e la crescita intellettuale (1952-1956)

Il trasferimento a 16 anni: dal "primo della classe" all'impegno per raggiungere i più bravi.

Intanto mio padre aveva riaperto lo studio di Roma, e nel 1952, all’eta di 16 anni, andai a vivere con i genitori, mentre Cicci restava con i nonni. A Lanciano ero il più bravo della classe, e non c’erano compagni stimolanti che mi seguissero nei miei interessi artistici e intellettuali. Mi trasferii così a Roma, per frequentare un liceo più evoluto di quanto non fosse quello di Lanciano. Infatti mi trovai subito in una classe dove erano ben otto i compagni più bravi di me, e dovetti impegnarmi molto per entrare negli otto. Però trovai anche ragazzi molto aggiornati nel jazz, nel cinema e in altri interessi culturali, che sarebbero stati fondamentali per la mia formazione.

Nel primo anno di liceo ci fu una festa danzante a scuola, e suonò un complesso ispirato a Benny Goodman con Marcello Riccio al clarinetto,Piero Umiliani al piano, Remigio Ducros al vibrafono, tutti jazzisti famosi con cui poi sarei diventato amico. Fu il primo impatto con il jazz romano.

Il **Convitto Nazinale** di Roma, in cui ho frequentato il liceo classico
Il Convitto Nazionale, dove ho frequentato il liceo classico dal 1952 al 1955.
La completezza: prepararsi bene non solo nello studio ma anche nello sport e nella società.

A Lanciano i ragazzi che andavano bene a scuola non facevano sport, nel senso che n on giocavano bene a pallone, non essendoci altri impianti sportivi. Mio fratello che a scuola non era un granché giocava benissimo a calcio, ed era un vero campione di calciobalilla. Poi per farsi il fiato come trombettista, diventò anche un ottimo ciclista. Io invece giocavo in quanto proprietario del pallone, più che per le mie capacità.
Giunto a Roma questa concezione subì un fiero colpo, perché gli otto più bravi della classe erano altrettanto bravi nello sport, disinvolti nella vita mondana (ossia nelle festicciole anni cinquanta), pieni di interessi extrascolastici. Anch’io quindi dovetti completare la mia preparazione. A scuola ero entrato nel gruppetto dei migliori, ed ero abbastanza bravo nella pittura e nel jazz, che cominciavo a conoscere piuttosto bene. Per emulare i compagni che erano campioncini di basket, hockey su prato, calcio, sollevamento pesi, provai col tennis senza nessun risultato apprezzabile, poi passai al nuoto dove me la cavavo molto meglio. Facevo parte della Romana Nuoto, e nella corsia accanto a me si allenava un ragazzo lungo e magro, il campione olimpionico Carlo Pedersoli, poi diventato famoso nel cinema come Bud Spencer.

Musica di prima grandezza: i concerti del Jazz at the Philarmonic (JATP) con Ella Fitzgerald e Oscar Peterson.

Per i miei 16 anni mia madre mi regalò il biglietto del concerto “Jazz at the Philarmonic” che Norman Granz portava in giro fin dagli anni quaranta con jazzisti di prima grandezza. Il JATP era il primo marchio applicato al jazz con l’idea di far uscire questa musica dai locali notturni, e portarla alla dignità di musica da concerto… A Roma vennero Ella Fitzgerald, Oscar Peterson, Gene Krupa, Barney Kessel e altri. L’anno dopo ho avuto la fortuna di sentire Nat King Cole accompagnato da una big band diretta da Quincy Jones, con una splendida Melba Liston al trombone, e Frank Sinatra accompagnato da Mezz Mezzrow, e a fine concerto la sorpresa di Ava Gardner (la mia attrice preferita) illuminata da un occhio di bue in un palco, con un po’ di disappunto di Frank che si vide rubare la scena dalla moglie. A Roma feci amicizia con Fabio e Claudio Pierini. Fabio divenne il mio compagno di banco, Claudio, più grande di noi di qualche anno, suonava benissimo il pianoforte, sia classico che jazz… Claudio mi suonava Chopin spiegandomi passo passo ciò che suonava, e mi fece conoscere Oscar Peterson, che subito dopo avrei sentito dal vivo nel memorabile concerto con Ella Fitzgerald, e che è sempre restato uno dei miei pianisti preferiti. Rispetto al caro buon mister Branels eravamo a livelli stratosferici, possibili allora solo in una metropoli come Roma, che mi faceva sentire ancor più i limiti della provincia da cui venivo.

L'arte che folgora: la mostra antologica di Picasso e l'impatto con l'arte materica di Burri.

Nel 1953 ci fu la grande mostra antologica di Picasso alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, che mi fece un’impressione grandissima perché, oltre a tutto il resto, vidi da vicino i due grandi quadri sulla guerra e la pace che aveva dipinto da poco. La galleria era diretta da Palma Bucarelli, che avrebbe organizzato altre mostre memorabili come quelle di Pollock e Capogrossi, introducendoci all’arte contemporanea internazionale. Nella galleria fui colpito da un quadro di Burri, che visto da lontano aveva una bellezza rotonda e pulita, e solo da vicino si scopriva fatto di sacchi, bruciature, lamiere.

I nuovi media: la prima volta con la TV (la Mille Miglia) e l'uscita de L'Espresso.

Sempre in quell’anno Giorgio Ammaniti, fratello maggiore dello psicologo Massimo e zio dello scrittore Niccolò, mi portò sulla via Cassia a vedere il passaggio della Mille Miglia, la famosa corsa su strada che fu soppressa nel 1957 per un gravissimo incidente. Vidi la grande corsa con i passaggi di Fangio, Taruffi e gli altri, e subito dopo andammo a casa sua dove continuammo a vedere la gara in televisione. Era la prima volta che vedevo la TV.

Nel 1955 era uscito L’Espresso, diretto da Arrigo Benedetti, con un giovanissimo Eugenio Scalfari fra i giornalisti. Cominciammo subito a leggerlo, e per noi rappresentò un forte opinion maker. Le grandi inchieste su corruzione, problemi sociali, mafia, costumi, ci sensibilizzarono alla politica e ad una visione radicale, coerente con gli interessi per le avanguardie artistiche e musicali.

I maestri del pensiero e l'avvio al pensiero critico

Il dialogo fondamentale: papà che mi parla di Kant nel boschetto di Navelli.

Spesso noi ragazzi accompagnavamo papà e lo aiutavamo nei lavori di sistemazione a parco del boschetto, oppure giocavamo mentre lui lavorava o leggeva. Un giorno – potevo avere 14 anni – papà mi chiamò e mi disse: “Basta giocare, vieni che parliamo un po’” Io mi sedetti accanto a lui, e cominciò a parlarmi di Kant, spiegandomi il noumeno, il fenomeno, l’imperativo categorico. Io rimasi folgorato. Era la prima volta che mi veniva mostrato un gioco di gran lunga più interessante dei giochi e delle chiacchiere che avevo fatto finora. Avrei continuato questo gioco con papà in lunghe ed appassionate discussioni che durarono fino a quando, devastato dall’Alzheimer, non era più in grado di ragionare. Questo episodio che rimane sempre vivo nella mia mente, legato ai profumi dei pini e al timido canto delle cicale, mi ha insegnato che non si è mai troppo giovani né troppo vecchi per fare cose interessanti. Anch’io a mia figlia ho cominciato preso a fare discorsi impegnativi, e tuttora ci divertiamo molto a conversare degli argomenti più svariati, specialmente a tavola, da noi sempre intesa come il momento conviviale della famiglia.

La lezione del feeling: il prof. Cattivera e l'importanza di integrare passione e intelletto (lo "swing" del jazz).

In quarta ginnasio avevo avuto uno straordinario ed amatissimo professore di lettere, il prof. Cattivera, che veniva da un paesino nei pressi di Pescara. Era vibrante e pieno di passione ed apprezzava le mie capacità artistiche e i miei interessi letterari. Mio nonno mi faceva prendere lezioni da Aldo, il fratello più grande dei cuginetti miei compagni di giochi. Io non avevo bisogno di lezioni private, ma il nonno voleva aiutare la famiglia dei cugini, che aveva qualche problema economico. Aldo era un giovane molto brillante e preparato, e capì subito che non mi doveva dare nessuna ripetizione… Dal professore e da Aldo, combinati insieme, capii l’importanza del feeling, della passione, che va sempre integrata all’intelletto e alle abilità. Ne avrei trovato conferma nella “Teoria e gioco del demone” di Garcia Lorca, in “Feeling and form, A Theory of art” di Suzanne Langer, e nel jazz, dove Duke Ellington ci ricordava che “It don’t mean a thing if it Ain’t got that Swing”, non significa nulla se non ha swing, quella particolare spinta ritmica che insieme col feeling caratterizza il buon jazz.

La foto ricordo della IV ginnasio del 1948
La foto ricordo della IV ginnasio di Lanciano, autografata dal prof. Cattivera. Basta la sua calligrafia per mostrare il suo temperamento appassionato. Io sono quello che svetta in alto sorridente.
Il sostegno alla crescita: la signorina Feliziani che spinge per il ritorno a Roma e la visita finale.

Fra gli altri miei maestri ricordo la signorina Feliziani, menomata nel fisico ma brillantissima di mente, amica di famiglia, che andavo a trovare spesso e che fece molta pressione sui miei genitori per farmi andare a Roma, anche perché a Cattivera era succeduto un professore grigio, deprimente, ultraconformista, con cui entrai subito in rotta di collisione. La Feliziani era affetta da una malattia ossea degenerativa che la costrinse a letto. Ricordo la visita che le feci poco prima della sua fine all’Ospedale Forlanini di Roma. La trovai bocconi su un letto che manovrava con manovelle varie, ma sempre vivace e stimolante. Io avevo diciassette anni e le riferivo i miei progressi intellettuali dopo il ritorno a Roma da lei tanto auspicato. Ricordo bene come allora mi crogiolavo con le mie pene d’amore, ma dopo aver visto la cara amica Feliziani in quelle condizioni, uscito dall’immenso ospedale dove nessuno era in grado di camminare, mi guardavo le gambe e i piedi e mi dicevo: “Io cammino!”. Improvvisamente mi sentii molto fortunato, e le pene d’amore mi sembrarono assai futili.

Per me fu la prima esperienza formativa su dimensioni e gerarchie di problemi, fondamentali nella fase di definizione del problema.

Le prime esperienze di costruttivismo e relativismo: il dimagrimento con il Metrecal

Dopo aver sofferto complessi di inferiorità per il lieve sovrappeso che avevo fin da bambino, aver subito epiteti dai compagni e aver provato timidezza e imbarazzo nel difficile periodo dell’adolescenza, arrivato a venti anni faccio la prima cura dimagrante, con il Metrecal che sembra la pozione magica ma che si rivela un’illusione come tutti i metodi di dinagrimento rapido. Tuttavia questo primo dimagrimento per me è molto importante perché mi fa capire che le caratteristiche fisiche non sono rigide imposizioni del destino, ma possiamo intervenire su di esse, e che il pranzo non è sacro, volendo lo si può saltare… I valori relativi del pranzo, dell’amore e della normalità furono le mie prime esperienze con costruttivismo e relativismo, che poi mi avrebbero sempre accompagnato e sostenuto, fino a considerare la vecchiaia come una costruzione mentale che si può governare come qualsiasi altro pensiero.

La fotografia come arte: l'impatto con la mostra "The Family of Man" , seme della futura professione

Nello stesso anno il grande fotografo Edward Steichen organizzò la mostra “The family of Man”, una raccolta di 503 foto selezionate da più di 2 milioni di foto di tutto il mondo. La mostra arrivò a Roma l’anno dopo, e ricordo ancora l’impressione che mi fecero le gigantografie di alta qualità e il mio primo impatto con i veri, grandi fotografi. Fu un imprinting fondamentale quando, otto anni più tardi, mi sarei dedicato alla fotografia professionale. Ho ancora il catalogo originale della mostra, impaginato dal grande grafico di Vogue Leo Lionni, che ebbi la fortuna di conoscere poco prima che morisse.